Una bomba elettromagnetica o bomba-E (E-bomb) è un arma progettata per mettere fuori uso i componenti elettronici in un vasto raggio di azione mediante un impulso elettromagnetico o EMP (electro magnetic pulse)[1].
Questo intenso flusso di energia elettromagnetica può essere generato per effetto Compton o fotoelettrico. In entrambi i casi si può avere generazione di elettroni ad alta energia ed è ipotizzabile l’impiego di ordigni esplosivi in grado di sfruttare questi fenomeni fisici stimolando l’emissione di elettroni dei materiali di cui sono costituiti o dei mezzi circostanti.
Gli intensi campi elettrici e magnetici risultanti possono accoppiarsi con gli apparati elettrici o elettronici circostanti creando extracorrenti o picchi di tensione in grado di danneggiare i circuiti.
I componenti soggetti a questo tipo di danni sono: (elencando in ordine decrescente di vulnerabilità):
· circuiti integrati (IC), processori (CPU), componenti a 16 silicio in genere;
· transistor;
· valvole termoioniche;
· induttanze e motori;
Di conseguenza la tecnologia a transistor è più vulnerabile, mentre le vecchie apparecchiature a valvole potrebbero sopravvivere a questi attacchi. Comunque studi successivi hanno meglio caratterizzato la suscettibilità all’EMP dei dispositivi a semiconduttori verificando diverse sensibilità.
Gli attuali studi di questa tecnologia mirano a studiare il potenziale della bomba-E[2] come misura anti-computer, per debellare, quindi, tutte quelle strutture tecnologiche possedute dall’avversario.
Come unica protezione per le strutture operative dotate di sistemi tecnologici quali PC, strumentazione elettronica in generale, ecc., ovvero dotati di circuiti elettronici è quello di far ricorso a gabbie di Faraday.
[1] L’impulso elettromagnetico o EMP (electro magnetic pulse) fu osservato estensivamente per la prima volta durante gli esperimenti nucleari della serie Fishbowl, comprendenti i test Starfish, Checkmate, Bluegill e Kingfish condotti all’inizio degli anni anni ’60 con esplosioni nell’alta atmosfera. Durante queste detonazioni si verificò la generazione di un forte impulso elettromagnetico che si propagò in tutte le direzioni come un’onda d’urto e con una intensità che inizialmente era stata sottostimata. Questa onda d’urto elettromagnetica fu in grado di indurre elevate correnti nei dispositivi elettrici e elettronici anche posti a notevoli distanze. I picchi di corrente in alcuni casi furono di entità tale da generare il calore sufficiente a portare a temperatura di fusione i circuiti o a interrompere i fusibili. Si dimostrò, quindi, la potenziale capacità di ottenere pesanti danni su vasti territori, pur senza causare direttamente perdite di vite umane, ma rendendo inefficienti i sistemi elettrici ed elettronici.I resoconti più completi si hanno sugli effetti sperimentati sulle isole Hawaii nel caso della esplosione Starfish Prime, una test nucleare che portò all’esplosione a 400 km di quota di una testata da 1,4 Kton il 9 luglio 1962. Gli effetti EMP furono evidenti anche a oltre 1300 km di distanza e le misurazioni portarono ad una prima comprensione del fenomeno.
[2] Le armi nucleari specializzate nella produzione di EMP appartengono alla terza generazione di armi nucleari.